Massimo Raccagni Massimo Raccagni

Uno spazio di parola per il sig. Down

L’operatore disanimato che, nella propria esperienza professionale, rinunci ad intraprendere in modo artigianale una pratica sostenuta da una “poetica dell’educativa”, rischia di avvicinarsi alle persone di cui si occupa rivolgendo loro uno sguardo immobile e pregiudizievole. Uno sguardo che rimane sempre lo stesso e che rimanda ad un ascolto sempre più impoverito, tendenzialmente rassegnato a constatare la fatuità dei medesimi contenuti che i propri assistiti ripetono quotidianamente. Uno sguardo non interessato ad intravedere le differenze che pure esistono anche in quella porzione di umanità che versa in condizioni di disabilità intellettiva.

Nella clinica delle disabilità intellettive, la differenza tra un soggetto alla propria parola e l’altro non si evince all’interno di una conversazione ascoltando letteralmente le pronunciazioni riproposte, che rimangono tendenzialmente sempre le stesse, e nemmeno si coglie “tra le righe” degli enunciati. Per definizione, la persona con insufficienza intellettiva intrattiene un rapporto con il linguaggio talmente debole da non essere in grado “intelligere”, ovvero di esprimere o di leggere e comprendere ciò che implicitamente viene detto “tra le righe” di un legame discorsivo. Questa condizione di disabbonamento al linguaggio della persona con ritardo mentale si coglie innanzitutto in quelle produzioni semplicistiche che rivelano l’incapacità di rappresentarsi nel campo del simbolo, giocando con i fraintendimenti propri della “finzione del linguaggio” (allusioni, metafore…). La debilità nel rapporto con il campo dell’Altro del linguaggio si accompagna all’impossibilità di rimanere in un rapporto dialettico, fino a produrre effetti di disconnessione dal legame discorsivo con l’interlocutore. Quando l’essere “fuori discorso di fatto” che si accompagna alla condizione di insufficienza intellettiva appesantisce ulteriormente la paziente pratica educativa di ascolto quotidiano, la relazione si impoverisce innanzitutto linguisticamente.

Nel lavoro educativo, là dove manca un ascolto vivace, la responsabilità, ovvero la capacità di rispondere alla disabilitazione al linguaggio, rimane inevitabilmente una funzione dell’operatore della cura. Preso da un senso di disanimazione, può accadere che l’educatore rinunci a sostenere uno scambio simbolico, mettendo inconsapevolmente in atto pratiche assistenziali che comportino un’ulteriore “privazione di significante” che, assommandosi alla condizione di “insufficienza significante” propria della persona con insufficienza intellettiva, producono effetti di ulteriore avvilimento della relazione.

Per sopravvivere alle difficoltà, durante la discussione del caso, sollecito le équipe educative a “scommettere” che il “voler dire, pur senza dire niente” di quel soggetto con disabilità intellettiva rimanda comunque ad un tacito punto di enunciazione. La discussione del caso tende a convocare la curiosità degli operatori a guardare, proprio in quel punto cieco e ancora tacito, l’esistenza di un soggetto alla parola: un soggetto potenzialmente parlante, e non solo parlato di fatto.

Conformandosi fondamentalmente ai modelli riabilitativi promossi dalle “macchinazioni diagnostiche” irrigidite che prescrivono la reiterazione di una valutazione del funzionamento e delle disabilità, lo sguardo dell’educatore non è chiamato a considerare quel punto di enunciazione proprio anche del soggetto con insufficienza mentale, la cui esistenza, istituzionalizzata o spesso chiusa in una dimensione di familismo, rimane disabbonata alla vita inscritta in un legame sociale ancora possibile.

Un’educativa che si serve in modo indiscriminato delle categorie conoscitive standardizzate del “funzionamento della disabilità” produce effetti di disabilitazione della soggettività, fissando l’individuo a quel complesso di significanti appartenenti al campo semantico della svalutazione, del ritardo incolmabile. Un’etica professionale che non riesce ad animare una poetica dell’educativa, trasferisce questi significanti appartenenti al campo semantico della deficitarietà nello sguardo tecnico o pregiudizievole dell’operatore di riferimento al quale il soggetto con disabilità rimane legato in forma dipendente. Il soggetto con insufficienza mentale, nel difficoltoso tentativo di prodursi in un discorso, si troverà costretto inesorabilmente a partire dall’identificazione a quei significanti che legittimeranno la povertà dei contenuti, sempre gli stessi, che orienteranno la vita e la possibilità degli scambi relazionali in un ambiente protetto.

L’assenza di desiderio di discorso contamina la relazione reciproca tra operatore e ospite.

 

L’esemplificazione del caso: “Io sono Down”.

A. partecipa per la prima volta all’atelier “spazio parola”. Si presenta al gruppo, prima ancora di formulare il suo nome proprio, tentando di definirsi dicendo innanzitutto “io sono Down”. A. esibisce il significante Down come costituente la sua “carta di identità”. Poi tace.

Sollecitato dal conduttore che chiede spiegazioni ulteriori, A. inizia un discorso molto impostato, inizialmente con modi ragionevoli: “sono Down vuol dire che…” e descrive agli altri ospiti gli effetti limitanti della sindrome: i deficit di apprendimento delle abilità scolastiche, la necessità di assistenza e supervisione nell’esercizio delle abilità quotidiane proprio, come se avesse raggiunto una piena metacognizione della propria condizione di disabilità. Mentre dice queste cose, A. mostra un’espressione tesa nello sforzo di interpretare una parte.  È evidente quanto A. si definisca a partire dalla condizione di “essere parlato” rappresentandosi con quelle categorie linguistiche prelevate da qualcun’altro dal quale è stato formato.

Ma che uso fa A. del sapere dell’altro? In che modo lo ha fatto proprio? Le espressioni di A. rivelano la sua totale alienazione alle identificazioni offerte dal discorso dell’Altro sociale, reperite nel corso delle intense esperienze di apprendimento abilitante effettuate con educatori verso i quali A. si è mostrato sempre docile ed accondiscendente.

Nel gruppo ci sono altri ospiti che ascoltano, alcuni dei quali evidentemente portatori della sindrome di Down, proprio come lui, ma A. non li riconosce come tali: il significante “sindrome di Down” gli appartiene come insegna identitaria assolutamente propria.

A. continua ad interpretare questa parte che assume sempre più i toni di una delicata commedia. Ma la scena cambia improvvisamente quando il conduttore interroga A. intorno alla ripetizione di quei significanti utilizzati per dare consistenza chiusa alla propria individualità. L’elaborazione cede ed A. dimostra di non saperci fare con quel sapere del tutto estraneo; inizia a confondersi ed arriva a sostenere che lui è Down perché ha contratto un virus, come quello dell’influenza… .

Cercando altri pensieri e parole proprie, prescindendo ora dalle proprie limitazioni funzionali, A. prende le distanze dal discorso dell’altro, inizia ad intraprendere un altro dire e confida che in futuro vorrebbe diventare un famoso commentatore televisivo, oppure fare il giornalista per girare il mondo intervistando le persone e scrivendo di loro sui giornali. Per quanto il suo dire risulti eccentrico al buon senso comune, ora A. sorride mentre si esprime, evidentemente animato dal proprio desiderio di essere in un legame discorsivo.

L’équipe ora si può interrogare su una questione di politica dell’educativa: pur nel rispetto dei limiti del registro intellettivo, quale invenzione può favorire un’inclusione dell’eccentricità di A. anche se in un contesto sociale protetto?

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